Su “Autobiografia del silenzio” di Cinzia Marulli

Con la penna in mano
scavare tra le costole

un violino urla
lo sconcerto del vuoto

il dolore è una cosa solida
quando afferra
sono le mani a lasciare la presa.

Tutto è stato diverso
il percorso ormai
lapidato

stigmate d’infanzia
sulla carta d’identità.


Autobiografia del silenzio (La vita felice, 2022) è l’ultima pubblicazione di Cinzia Marulli. Non si tratta di una raccolta-di-poesie nel senso contemporaneo e abituale del termine, né sarebbe corretto definirla tale. Il testo di Marulli articola un’esposizione – in forma di versi e brevi prose – in quattro momenti: Il prima, L’orco e la bambola (in assonanza al sottotitolo del volume, L’orco e la bambina), Il dopo e In fine. All’ultima poesia, “E con questo”, segue una breve nota autobiografica dell’autrice, che traduce in testimonianza quanto fino a quel punto è stato poesia – il racconto di una violenza subita in tenera età. È il modo in cui l’autrice risolve una tensione che anima programmaticamente la sua scrittura. In quest’ultima coesistono infatti il dato del sentire privato, della storia privata, e la formalizzazione estetica. Questi due elementi, di cui – e in cui – Autobiografia del silenzio si genera, sono bilanciati per le cinquanta pagine del volume in una dinamica di contrazione che non conosce momento di sintesi. La nota autobiografica, conclusiva, interviene a con-cludere la questione: quanto si è letto, la poesia che si è letta, è dunque vita. Un concetto, poieticamente parlando, caro alla riflessione di un’altra poeta contemporanea di elezione romana – Mariagrazia Calandrone, a cui pure Marulli deve molto in termini di elaborazione lessicale e prospettica. Autobiografia è infatti il risultato di una profonda riflessione sul lessico, sulla parola intesa come punto di chiarezza. Una parola che cerca il minimo termine, la neutralità – ingannevole – dell’autoaffermazione.

A questo proposito, è sensato stabilire un parallelo tra il lavoro poetico di Marulli e quello di Davide Cortese – trattato precedentemente in questo spazio. Il poeta di Lipari si orienta infatti ai motivi distorsivi dell’infanzia con un’attitudine simile a quella di Marulli in senso poietico, ma diametralmente opposto nei risultati formali. Un dato interessante che l’accostamento con Cortese permette di sottolineare, per contrasto, è infatti relativo allo specifico narrativo di Autobiografia. Non ‘un racconto’ ma ‘racconto’ in sé, tableau in cui gli agenti si muovono sui binari di un tracciato immodificabile. Tutto è scandito: Il prima, l’incontro violento – L’orco e la bambola – e la separazione, Il dopo. Non la storia della vittima, ma della violenza. L’autobiografia è così del silenzio stesso, della circostanza stessa dell’abuso infantile. È questo, forse, a rendere più interessante il testo di Marulli, che tratta con acuta sensibilità estetica di una questione tra le più delicate nell’ordine di quelle quelle concepibili dall’essere umano, evitando di polarizzarsi in senso ‘cronachistico’ o autoreferenziale. Esistono la bambina e la sua orrenda ferita, ma esistono l’orco, l’atto del ferire – in definitiva, ineluttabilmente, il silenzio. La lapidazione di un percorso, iscritta su un documento come connotazione della rovina – di tutti.

Su “Autobiografia del silenzio” di Cinzia Marulli

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