Due cose in particolare ho intenzione di sottolineare, a proposito di Defrost, l’esordio di Diletta D’Angelo uscito a fine 2022 per Interno Poesia. La prima è la lingua; la seconda è la capacità di agganciare il micro al macro, cioè lo stridore dei piccoli oggetti, della situazione insignificante, alle voragini che si aprono tra le persone, tra l’individuo e il contesto – esterno o interno – in cui vive.
Del resto, già dai titoli delle quattro sezioni che ordinatamente strutturano il libro – Anamnesi¸ Auscultazioni, Incisioni, Anatomie – riconosciamo una volontà conoscitiva, analitica, che si mette di fronte all’esperienza (un’esperienza al passato prossimo, soprattutto, ricordi di spaccature ancora fresche) con il modus deduttivo della scienza e la distanza necessaria tra il medico e il paziente. La sfera scientifica, e in particolare medica, gioca infatti un ruolo centrale nel libro, non tanto per il lessico (comunque fondamentale), ma soprattutto in forma di interrogazione (appunto analitica, “dall’alto”) dell’esistenza. Lo descrive bene Carmen Gallo, nel saggio a fine libro, quando parla di «orizzonte della conoscenza per divinazione profetica (o poetica) […] rimpiazzato dalla fede nella scienza – così ostentatamente esibita da sembrare malferma». Due forme di scoperta che si intersecano (e scontrano, anche) nel momento (storico) in cui la conoscenza è abitualmente deputata alla scienza e fa quindi apparire impossibile una forma divinatoria della poesia. Così D’Angelo la spezza con lo sguardo clinico, con l’immaginario quasi feticistico della medicina, in cui la carne è devitalizzata, sbattuta senza nome sul tavolo della sala operatoria (leggiamo: «anatomia di violenza di radici biologiche»).
Di tutto ciò è responsabile la lingua. Nel senso che quel «sottofondo drammatico e traumatico che non vediamo mai rappresentato in presa diretta, ma sempre alluso» di cui parla Alberto Bertoni (autore anche lui di una Nota al testo), quell’oggetto di studio di cui si diceva, insomma, è l’epicentro di un sisma che si manifesta all’altezza dei versi – sempre lunghi, narrativi, slogati – di D’Angelo. La lingua di Defrost è una lingua bruciata, che insiste sugli aggettivi e i suoni più duri: «Colpi di suono su un enorme sacco di sabbia ricordo / solo il rumore […] dell’evento nessune immediate conseguenze», «incisivi affondati in fette di carne cruda», sono immagini icastiche proprio nel loro non spiegarsi, nella loro violenza muta, che ricade sui brandelli, su corpi ridotti a cose e perciò impazziti.
L’ordine del discorso, insomma, è questo: c’è l’Anamnesi, cioè la diagnosi, il passo indietro necessario per cominciare a conoscere; poi le Auscultazioni, cioè forme fredde e rilevatrici di ricezione; quindi la precisione autoptica delle Incisioni; infine le Anatomie, mappature di ciò che è stato osservato. Forse azzardiamo nel dire che nella scrittura di D’Angelo si percepisce quella dicotomia tra inerzia e desiderio, o tra reificazione e insofferenza, che molto caratterizza l’Occidente a quest’altezza del millennio, e soprattutto le generazioni più giovani; sicuro, però, è che Defrost sottopone lo spazio in cui si ambienta – il sempre fertile e complicato paesaggio familiare – a un’autopsia poetica, a una lingua che proprio quando tende al referto si riconosce debilitata e scuote. «La casa veniva sventrata e ricucita», insomma, ed è da questa (auto-)violenza che si sprigionano notizie.
Capita che piccole falene sboccino da buchi nelle porte,
che sopravvivano durante la fase larvale in strette gallerie scavate con la bocca
che fatte a pezzi (una volta fuori dai fori di sfarfallamento)
sfamino insetti più grandi