Giovanna Cristina Vivinetto

Giovanna Cristina Vivinetto è nata a Siracusa nel 1994. Vive attualmente a Roma, dove si è laureata in Filologia moderna all’Università La Sapienza con una tesi in Letteratura contemporanea sulla poesia di Franco Buffoni successiva all’Oscar Mondadori (2012). Dolore minimo (Interlinea, 2018 – Premio Cetonaverde, Premio San Domenichino, Premio Lord Byron, Premio Senghor, Premio Valentino, Premio Alda Merini) è la sua opera prima, nonché primo testo in Italia ad affrontare in poesia la tematica della transessualità e della disforia di genere. Con prefazione di Dacia Maraini e postfazione di Alessandro Fo, il libro è apparso ed è stato recensito sulle maggiori testate giornalistiche nazionali. Un’ampia selezione di suoi testi inediti è apparsa sul XIV Quaderno di Poesia Contemporanea, edito nel marzo 2019 da Marcos y Marcos.


da Dolore minimo (2018)

Quando nacqui mia madre

mi fece un dono antichissimo,

il dono dell’indovino Tiresia:

mutare sesso una volta nella vita.

Già dal primo vagito comprese

che il mio crescere sarebbe stato

un ribelle scollarsi dalla carne,

una lotta fratricida tra spirito

e pelle. Un annichilimento.

Così mi diede i suoi vestiti,

le sue scarpe, i suoi rossetti;

mi disse: «prendi, figlio mio,

diventa ciò che sei

se ciò che sei non sei potuto essere».

Divenni indovina, un’altra Tiresia.

Praticai l’arte della veggenza,

mi feci maga, strega, donna

e mi arresi al bisbiglio del corpo

– cedetti alla sua femminea seduzione.

Fu allora che mia madre

si perpetuò in me, mi rese

figlia cadetta del mio tempo,

in cui si può vivere bene a patto

che si vaghi in tondo, ciechi

– che si celi, proprio come Tiresia,

un mistero che non si può dire.

*

Al mio paese esiste una parola

nitida come un chiodo

un motivo che scongiura il male.

«Scansatini» è una preghiera,

un inno altissimo alla preservazione

di se stessi. «Fa’ che non accada»,

sentivo bisbigliare spesso

«Fa’ che non diventi così», e poi

all’improvviso le labbra si serravano

e le parole assumevano un accento

arcano, quasi inviolabile.

Eppure gli «Scansatini, Signuri»

tornarono uno ad uno: il male

da scansare fu concepito tutto

nel mio grembo – ma non ci furono nuovi

spergiuri da formulare, parole

che annullassero parole, mani

da alzare al cielo per fingersi

inutilmente sorpresi, feriti.

Allora ci fu solo da sbrogliare

gli anni subìti, mettere a posto

le parole e liberare all’aperto

quello che a mani giunte si temeva.

E quel mostro che in tanti anni

avevo allontanato, fu assai più

docile quando, abolite le catene,

lo presi infine per mano.

*


Non ho figli da dare – non potrò.

Non ho tube che si gonfiano

né ovuli da spargere per il mondo.

Non ho vulve da tenere fra due

dita – da schiudere tra le valve

delle gambe non ho niente.

Ma lui mi sfiora, continua a toccarmi,

a perlustrare con le dita questo

corpo imploso, risucchiato tutto

all’interno. Fuggito senza lasciare

tracce. E lui persiste a sfiorarmi

per trovare il punto che possa

dargli piacere. Che possa

consolarlo, farlo sentire uomo.

Non glielo dico, ma non c’è.

Eppure tutta questa sua goffa

illusione, quest’avventatezza

nel proiettarsi verso il dato certo

per un attimo mi restituisce

tutto ciò che mi manca – e al suo miracolo

questa sera mi faccio donna.

Completamente.

Giovanna Cristina Vivinetto