Su La Balena di Gabriele Galloni

Inghiottirà tutta l’acqua di Dio?
La balena travolge le foreste
marine – è buio abbandonato l’Io.



La Balena giunge al termine del Bestiario dei giorni di festa, raccolta postuma di Gabriele Galloni. Nella prefazione del volume Ilaria Palomba scrive – a ragione: “La poesia di Gabriele Galloni è il piano in cui tutti gli altri si incontrano”. È luogo di sovrapposizione. Spazio in cui ogni angolatura dell’esperienza trova un correlativo nell’immagine. La tranquillità del ripetersi di un quotidiano paradossalmente mai uguale a sé stesso, il sapore iniziatico delle esperienze nuove, il baratro degli abbandoni subiti, le ferite. Con attitudine miniaturistica Galloni scolpisce i dettagli della propria dimensione, orchestrando una poetica animalesca e civile al contempo: le bestie ci somigliano perché noi somigliamo alle bestie. Così, in appena tre versi, il totale del dato esperienziale del poeta prende forma nel simulacro etologico. Con attitudine squisitamente lirica, Galloni si nasconde nella finizione di un’immagine che non lo rappresenta, e che pure dice così tanto della sua poetica, straziata da un dolore irrisolto. La domanda resta senza risposta. Si estenderà la creatura gigantesca fino a inghiottire uno dei regni di Dio? La sua semplice presenza – il suo essere in vita – è motivo di cataclisma. Le sue azioni sconvolgono l’ordine costituito degli elementi subacquei. Spezzando il secondo verso con l’enjambement “le foreste / marine” il poeta costringe l’occhio del lettore a una pausa forzata, a un arresto nel respiro. Così al singhiozzo succede un singhiozzo: il trattino frammenta la chiusa in uno spazio altro, come fulmen in clausola. La poesia termina così com’è iniziata, strappata dal silenzio in un fulmineo frammento di tempo. Nessuna risposta, nessuna risoluzione. Solo la lucida consapevolezza di ciò che l’Io significa, nei termini di un’immagine generata dal pandemonio delle foreste travolte. Tutti vanno nel buio, scrive Eliot nei quartetti. Ora quel buio non è più luogo da abitare, luogo entro il quale muovere le membra. In esso l’abbandono dell’io, schiantato come fronde quando il temporale delle pinne giunge a travolgere ogni cosa.

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