Su “Abbiamo discusso dell’aldilà” di Paolo Pitorri

L’esordio di Paolo Pitorri, Abbiamo discusso dell’aldilà (Marco Saya, 2021), si distingue per una lingua piana ma evocativa, i versi isolati e scanditi dalla sintassi ma anche in grado di seguire il dinamismo della scena. Volendo schematizzare, è su due forze, principalmente, che si regge il suo equilibrio; due forze fra loro avversarie ma in questa avversità armoniche: da un lato una tendenza essenzializzante, che cerca di rinvenire nell’eterogeneità delle cose alcuni punti cardinali (lo capiamo già dai nomi delle prime sezioni, Luce e Corpo); dall’altro una tendenza disgregante, che invece mostra le frantumazioni (e infatti i titoli delle altre sezioni hanno a che fare con mancanze o decadimenti: Sete, Vele rotte, Terre opache, Autunno).

Volendo schematizzare ulteriormente, poi, si può osservare come queste due forze si servano spesso di altri due elementi: la natura e il pensiero. La natura – animale e soprattutto vegetale – assume in Pitorri un ruolo ambiguo, dacché in parte conserva una certa dignità rivelatoria, ammaliante («Ho salutato la luna con in mano spighe di grano. / Ero il cane che abbaiava la luce della lepre.»), in parte spinge l’umano a un pacificato e armonico “rientro” («Dal mio occhio germoglia un fiore / un bulbo oculare pronto a sbocciare») che non a caso si accompagna a un desiderato “rientro” materno («Col volto cianotico fisso mia madre soffrendo / voglio rientrare in lei per non dover più vagire. / Un passo indietro per non dover morire. / Ventidue anni alle spalle per non dover nascere – soffrire»).

La consapevolezza di una frattura, però, mina la possibilità di questa felice regressione. L’umano si dà come essere pensante ed essere parlante, ed è proprio tale extra a impedirgli una pacificazione definitiva, soprattutto quando – ed è significativo – sta per compiersi un gesto in certo senso antinaturale (poiché disobbediente alla conservazione della specie), ovvero il suicidio: «la paura di farsi sonnambulo: impugnare un coltello: / poggiarne la punta sullo stomaco: sentire il cervello / parlare alla lingua – dire: / non spingere».

L’aspetto più interessante di questo libro, tuttavia, sta nella capacità di inscenare questo conflitto senza tuttavia renderlo manicheo, permettendo così di indossarne seriamente la contraddizione e l’irrisolto. Ne è prova il fatto che la “compromissione” dell’umano per via del pensiero-linguaggio va a condizionare la stessa costruzione del desiderio, comportando così che se da un lato, come visto, l’aspirazione è verso un primigenio incontaminato («Sono io il solipsista che sogna la simbiosi», «Protetto dalla sindone del lago»), dall’altro la consapevolezza della scissione può farsi anche rivendicazione della propria condizione: «ondeggia la lastra sottile del mondo / frangia contrastata di origine e morte / che simile a una trasparenza suscita una / separazione: una e una sola meraviglia».

Parimenti, alla dimensione spesso visionaria e mistica, se non allegorica, di questo libro («Tredici ragazze portano specchi tondi tra le mani / alla luce di nessuna luna li sollevano»), fa eco una razza imbastardita di ateismo («non ho divinità, non so a chi promettere sangue», «Pensare al suicidio, al suicidio di Dio»). La poesia di Pitorri è insomma essenzialmente interrogativa (compaiono ben ventiquattro domande, nell’opera), dunque ricercatrice, e sulla linea della domanda si fanno forti gli altri umani, chiamati per nome («Antonio»), chiamati con forza («Ho urlato tutti i nomi»): la fragilità umana come un cercare qualcosa, aspirare, poi cadere.

Vedo il mistero degli alberi e muoio nell’edera.
Nel bosco buio che mi illumina.
Le mie dita nella terra:
le radici della quercia.
La mia pelle su quest’erba:
nuovo sangue per la terra.

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