Su “Prisma” di Maria Borio

Se interrompi la vibrazione – le figure si sgranano.
Se alteri la frequenza – fondono. La polvere dei colori,
        un display in frantumi?

Ma, allora, le orecchie captavano ultrasuoni e non c’era
luce sulle scale, si entrava in un silenzio irrimediabile
        quando RU 18 / Are you 18?

e ancora non erano, eppure erano… Ma la storia che conservano
non è instagrammabile: ricordano, fibre ottiche sotto la strada
        trasportano nell’universo gli hater.

Ogni carica opposta può essere letale: il vento in sé
trascinava la montagna, un ululato dal pozzo etrusco
        prolungato e nero…

Fissano la posizione, nel satellite registrata,
mentre la luna piena taglia il mondo a scaglie
        ma lei correva sotto le mura e poteva cadere

un sasso o la luna, e la seguiva, poi non seguiva / follow, unfollow /
come gli archi a tutto sesto, avanti – sul telefono le lettere vibravano,
        ma lei correva, faceva perdere le tracce in uno screenshot

molto limpido… Quale prova contraria?
Guardatela: la ragazza o la roccia – non hanno l’aria di chi vuol vivere? –
        una impassibile nei segreti, l’altra immobile o saggia

sono reali forme di suono. Chi ha dato l’innesco?
Notte o arancia? E il respiro ancora non era, eppure era…
non… eppure.

Prisma esce nel 2022 per Zacinto Edizioni. Nello spazio della quarantina di pagine della plaquette, Borio compone un «poema» che «immagina le figure di suono della poesia attraverso gli effetti sonori del linguaggio». L’approccio compositivo si rivolge la dimensione del layout definendone in parametri in una stretta relazione tra i materiali primariamente grafici – tavole illustrative del fisico Ernst Florens Friedrich Chladni del diciottesimo secolo – e poetici. La verticalità del verso trova posto nel «manufatto poetico» come parte di una tessitura estetico-verbale retta, come già la plaquette precedente Dal deserto rosso (2021), da una tensione poietica inclusiva del dato puramente materiale. La produzione di Borio, in questo senso, fissa con Prisma un momento di evoluzione lineare, che prosegue il discorso già iniziato nella raccolta Trasparenza (2018) – accentrata intorno ai motivi idiosincratici dello schermo, della frantumazione relazionale per sovrapposizione di livelli di superficie.

Qui e ora [si potrebbe dire] «Se interrompi la vibrazione – le figure si sgranano»: la messa a fuoco stessa dei corpi è soggetta alla frequenza della vibrazione, del manifestarsi incessante di un movimento biologico – la cui eventualità di interruzione, quella della morte, sovrasta la sensibilità poetica di Borio come un terrore non manifesto. L’apertura a una dimensione creaturale del vissuto, animale nel senso più dantesco che etologico del termine, reca infatti con sé una percezione del dato della morte come insorgenza prossima – reale, ma non ancora. La disposizione della parola poetica asseconda così ragioni non solo estetiche e di messa-a-fuoco, ma di necessità manifestativa. Quello di Maria Borio non è un dire, ma un dirsi: un esporsi al fare creativo dell’immaginare le figure di suono secondo il parametro della singolarità esperienziale. In altre parole, dell’Io. L’interiorità preme infatti come orientamento della corrente – ragione prima e, al contempo, non manifesta. In conclusione si leggono così alcune parole di Clarice Lispector: «Una forma circoscrive il caos, una forma dà armatura alla sostanza amorfa […]: sarà di nuovo la vita umanizzata». La circoscrizione del caos, l’adozione di una certa frequenza – vibrante – che inneschi la messa a fuoco è un atto vitale: movimento antropico che genera il contatto con gli oggetti. Per la poeta, movimento che genera l’opera come intersezione irrisolta, non annichilita dal possibile grado zero della sintesi – e dunque ancora viva nello iato che separa la parola, nell’esperienza, dall’immagine.

Su “Prisma” di Maria Borio

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