Su “Nella spirale (Stagioni di una catastrofe)” di Gianluca D’Andrea

35. FINE, AMORE

Fine dicembre, mattino, nel nodo
di stelle spegne di gioia l’approdo.
Gioia amorosa, amore, fredda noia

non riconforta il dolce sguardo e l’agio
di viverci protetti nel presagio
di non avere abbentu1 o scappatoia,

che l’ultimo contagio sia la fine
del fuori, piega e clima poco incline.

1 – Pace, riposo

38. IL VIAGGIO – PIANURA

Infreddata pianura e fiore rosso
domani cogghi tuttu2, polpa e osso
della terra e dell’albero lo stesso.
Parla d’amore

la foglia nuova e verde, smaglia e infiora,
trascorre e scade e in spina si scolora.
È un cavaddu sciancatu chi addulura3
la vita e canta

di partenze e ritorni senza abbentu,
come un orso in montagna nello scanto
chi scinni e ‘nchiana senza orientamento
e senza strada.

2 – Raccogli tutto
3 – Cavallo stanco che addolora

In Nella spirale [Industria & Letteratura, 2021] D’Andrea recinta i propri materiali in quattro segmenti di tempo: Primavera, Estate, Autunno, Inverno. Si tratta del primo livello di distrofia della raccolta, determinato dall’apposizione di un sentimento di temporalità alla dimensione perimetrale delle sezioni. Non temporalità corrente, in movimento, ma isolata nell’immobilità della denominazione. I tempi di Nella spirale sono in effetti i tempi cosiddetti «morti». Tempi in cui il movimento nello spazio, per quanto esteso e insistente, ha perso la facoltà di valicare il confine dell’accadere. Il poeta riprende l’intuizione della «cellar door» primonovecentesca di Lyman Frank Baum: il confine domestico, materico, oltre il quale lo scorrere del tempo si perde. La ragione della «spirale» è così quella dell’isolamento, della chiusura di un confine che collassa in cerchi concentrici sempre più stretti – formalmente, che conduce dalla parola orizzontale della riflessione alla verticalità, infine, del verso. È infatti in Inverno che la parola di D’Andrea, cadenzata dall’intersezione di materiali figurativi realizzati dal poeta Vito Bonito, abbraccia la forma ‘poetica’ nel senso comune del termine. Alle spalle, nelle tre sezioni precedenti, si addensano le ragioni autoriali di concretezza sincretica: l’Ego scrivente abbraccia, indiscriminatamente, la confessione e la critica. L’intimità e l’ulteriorità, asettica. Si manifesta  così la seconda distrofia: il logorarsi delle categorie interpretative. Cifra cara alla poesia italiana degli ultimi anni, che D’Andrea porta, a ben vedere, sul piano problematico dell’affermazione. Il suo lavoro è infatti pesantemente ostensivo, presentativo di una ragione autoiscritta – quella della spirale. Si è detto, dell’isolamento. Immerso tra gli «aspetti problematici del nostro presente» come unica dimensione ontologica possibile, la sensibilità di D’Andrea dichiara un disastro collettivo, ne soppesa le rifrazioni, senza interagirvi. I movimenti del sé sono confinati in ciò che accade «dentro», non impattano con il muoversi di tutto il resto. Il conforto è così conforto illusorio, «viverci protetti nel presagio» non garantisce altro se non il ripetersi di una stagione interiore – che, come tutto, giunge al termine. Ed è questo il punto più tragico della raccolta: il grido, in definitiva, di una fine annunciata. La mancanza degli esiti possibili, dispersi dai motivi dello «scantu». È così un finire «senza orientamento» quello di D’Andrea, «senza strada», come incedere creaturale in un bosco ridotto da decenni di sconsiderato agire. Si arriva così alla terza distrofia, morale. Se infatti il poeta è, in principio, confinato in uno spazio senza tempo, e in un secondo momento voce che riscrive gli argini tematici del dire, la conclusione del suo giro di vite è il ritorno a un certo modello di dolore, ormai disatteso. Il male che deriva dalla fine è gridato dal poeta con un timbro lirico, che adotta lo slancio tradizionale di una ricerca di senso, di riscatto, senza successo. Si tratta di una qualità tardonovecentesca, che D’Andrea problematizza adottando un tratto nichilistico del tutto contemporaneo – quello di una reclusione che non spegne del tutto la tensione interiore ad accedere a un orizzonte nuovo. «Intanto questa notte è desiderio /  d’aria e respiro, protesta del ghiaccio / alle stagioni in cerca d’altro mare». Forse, all’orizzonte di una nuova morte.

Su “Nella spirale (Stagioni di una catastrofe)” di Gianluca D’Andrea

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