Con L’aiuto a non morire Arianna Vartolo dà forma alla sua prima raccolta in versi, edita da Cultura e dintorni Editore nel 2019, organizzando un discorso poetico denso di significati.
Nonostante i testi, nella loro brevitas essenziale e misurata, sembrino configurarsi come una disseminazione di schegge improvvise, queste composizioni – in realtà – richiedono una lettura lenta e sedimentata, un’attenzione e una cura attraverso cui è possibile far emergere l’ordito solido che Vartolo adombra dietro le sue intermittenti illuminations, frammenti di un discorso attivo tra l’autrice e le sue circostanti intimità. Se il rapporto con il mondo esterno diventa essenzialmente un dialogo privato (soprattutto nel rapporto con la propria interiorità o con un tu di riferimento), in non poche occasioni la profondità della riflessione assume un respiro che non teme di toccare domande e orizzonti di senso maggiormente universali, spesso scandagliati in chiave simbolica e, talvolta, filosofica.
Deve esistere vento
in questo avvolgersi di agrodolci
primavere; nelle radici mai stanche
del profondo – qui,
dove non riesci a vedere – deve
esistere il
Tutto.
La posizione di Vartolo, tuttavia, sia nell’esperienza singolare che in quella universale, non assume toni gnomici, ma preferisce declinare il discorso su sfumature ambivalenti e dubbiose, molto spesso connotate da un’attitudine meditativa la quale, però, non si limita a ripiegare su sé stessa, ma apre orizzonti interpretativi plurimi. Anche per questa ragione, alcune composizioni fanno direttamente pensare ad una tendenza al limite del sibillino, nella quale la parola – depurata da una sorta di invadenza cartesiana – lambisce crinali prossimi all’onirico, quasi configurandosi come quel dio, di memoria eraclitea, che non dice e non nasconde, ma tutto indica.
Erano moti
Primordiali, nel veloce
Splendore di ultime albe
Eterne.
Ore che sfumavano in
Ore; profumi
In carni
Nuove – fresche di
Vento.
Un riguardo così essenziale verso la parola, dunque, non può che tradursi – come accennato in precedenza – in forme brevi e condensate, nelle quali il ritmo stesso delle pause e delle inarcature (favorite da un uso “musicale” della punteggiatura) diventa spontaneamente funzione comunicativa. Non è un caso, infatti, se in diverse composizioni la poetessa invoca il Silenzio, una nota di bordone che, da minima interferenza originaria, si dilata come intermezzo tra i vari frammenti del dialogo tra l’io e il tu.
Silenzio
come tempo
di esistenza, linea
di pensiero e di
potenze. Un
mut(u)o leggersi e
costruirsi; curare. Respiriamo
per salvarci – noi
due.
Il Silenzio è il correlativo dell’attesa prima del pensiero e delle parole, un respiro originario che riesce a stabilire una sintonia, una corrispondenza; è quel momento esiziale di sospensione attraverso cui la poetessa crea una serie di parole-mondo esclusive nelle quali l’io-tu diventa, quasi simbioticamente, passando per la carne (in più passaggi intesa quasi con una connotazione sacrale ed estatica), gli umori, i respiri, le geografie del corpo, un noi.
So – in questi spazi di luce – trovare
te, cime ninfea in un
oriente vicino; so
toccare la tua voce, e così
assorbirti – corpo – che
creato è, e crea. Il solo,
necessario: so
(di) te. E non altro.
Ma la dualità può correre anche verso la disintegrazione, come a voler significare che a fronte di una potenziale esclusività vivificante può corrispondere una connaturata – e traumatica – assenza e una poco evitabile incomprensione tra esseri umani (e a tal proposito si vedano anche le diverse significazioni date all’elemento del vento). Un’ambivalenza, questa, che a più riprese ricorda quei fili sottili, tipici di buona parte dei lavori di Bergman o Kieslowski, stagliati tra una viscerale esigenza di comunicazione e una altrettanto viscerale incomunicabilità, tra la pienezza della parola e il vuoto dell’afasia.
Domande in attesa, ferme
sull’esile linea
dei tuoi pensieri
– mai sciolti.
Equilibri del ‘dove’
e del ‘quando’; il vento
immobile con loro.
Il bilanciamento tra il pieno e il vuoto, perciò, rimanda concettualmente a delle forme prossime a quelle dell’haiku. E questa forma si potrebbe qui intendere come il correlativo dell’esperienza poetico esistenziale che brucia – elemento su elemento – la materia, così come un segno di fuoco incide una lastra di legno. Assecondando l’analogia, il fuoco è l’esperienza che si vive o è stata vissuta, ciò che relaziona l’autrice al circostante; il legno solcato, invece, è il materico che grazie a quella esperienza assume una più dettagliata stratificazione nella forma: una significazione ulteriore – che è al contempo significante e significato – nella catena del segno-dopo-segno che va a comporsi sul piano.
Come in un ancestrale procedimento alchemico, bruciare significa distruggere, ma anche creare. Giunti a questo punto, è opportuna la domanda: qual è e che cos’è l’aiuto a non morire? Probabilmente è una ferita cauterizzata, un sacrificio, l’olocausto di sé stessi verso il tempo che erode, verso i gesti che passano ma lasciano un segno, verso tutto ciò che la nostra condizione di fragilità umana è costretta a vedere e vedersi fluire intorno e fuori. Ma l’aiuto a non morire potrebbe anche (e soprattutto) essere una frattura che implica un comporsi, uno scomporsi e nuovamente ricomporsi senza soluzione di continuità e – ad ogni momento successivo – con un grado di senso e di lucidità di visione sempre più chiaro, finché questo non diventerà uno stato di pacificata quiete. Così come un fuscello destinato a nuova fioritura mentre fuoriesce dalle crepe scomposte di un muro.