Stefano Bottero intervista Antonella Anedda

2 luglio 2019

 

 

b – Inizierei la nostra conversazione con uno sguardo a un verso di Residenze invernali. Nel 1992 lei scriveva: «In nessun luogo c’è bisogno di noi». Si tratta di parole che, se poste in relazione alle dinamiche politiche e sociali dell’Italia contemporanea, assumono la valenza della presa di posizione concreta. È secondo lei da considerarsi un attributo stesso della poesia il fatto che versi scritti un contesto privato, riferiti magari a una dinamica emotiva o personale, possano assumere nel corso del tempo una connotazione politica come accade nel caso in questione?

a – Sì, penso succeda. Quel verso era connesso con il termine “baltico”. Era il 1991 e a quell’anno (millonevecentonovantuno) si riferisce l’intera poesia. C’era stata la rivolta delle repubbliche baltiche e il tentativo di repressione, soprattutto dopo il sequestro di Gorbaciov e della moglie (riporto qui uno stralcio da un quotidiano:

Furono giornate, ore drammatiche, in cui in particolare i popoli baltici, lettoni, lituani, estoni, passarono dalla paura più grande, quella di una restaurazione della repressione sovietica e la fine della perestrojka gorbacioviana, col putsch guidato dai vetero comunisti, alla conquista dell’indipendenza de facto, il 21 agosto del 1991.

Tutta la poesia è fortemente influenzata da Osip Mandel’štam, quando scrive: «viviamo senza fiutare sotto di noi il paese», e da Paul Celan, che di Mandel’štam è stato il più grande traduttore. Nell’89 era caduto il muro di Berlino. Noi eravamo lì, la musica di moda era la lambada, c’era un clima di euforia, ma anche di ansia. Economica, politica.  Nel 1986 c’era stato Chernobyl, un amico che era non lontano da lì si è ammalato di tumore.  Vicino alla Spree c’era una radura e ho visto una lepre muoversi in un cespuglio senza foglie, rado, trasparente.

Sì, era una poesia inquieta e si adatta al clima di oggi, in tutti i sensi, non solo italiano.


b – Se la poesia dovesse spingere gli uomini all’azione, lo scriveva Auden, i responsabili della propaganda nazista sarebbero da considerarsi come i più grandi poeti della storia. In un mondo in cui gli estremismi di destra sembrano rifiorire radicandosi nel vuoto dell’ignoranza, tuttavia, viene spontaneo chiedersi quale possa essere il ruolo della poesia (semmai ne abbia uno). Mi piacerebbe conoscere il suo pensiero a riguardo.

a – Non so se la poesia abbia un ruolo. Non sono sicura che consoli, non è l’espressione di “un’anima bella”, non credo esista l’anima e non coincide con il poetico.

Quella “cosa” chiamata poesia (così la chiama Giudici) è una forte sinapsi della realtà. Il suo ruolo? Forse quello di resistere? Nonostante tutto.  Zanzotto scrive: «tu non mi hai mai tradito paesaggio» ma cancella la parola «paesaggio». Ecco, in quel cancellare c’è la poesia, il suo ruolo forse è in quel segno, nel rendere visibile una contraddizione, quello strappo.


b – In Salva con nome ha scritto della possibilità di “invertire la rotta del male”.

Prova da qui dal rettangolo che percorri in questa vita
prova a dire il soffio delle cose.

Ha mai percepito questa possibilità come una responsabilità? Esiste secondo lei un dovere morale del poeta nei confronti del vivere dovendo provare a dire, a scrivere?

a – Sì, esiste per me come persona e questa persona scrive. Nell’86 c’era stato Chernobyl e, come dice Svetlana Aleksievič, «l’unica vera poeta epica dei nostri tempi», questo ha cambiato il nostro linguaggio. Dopo Chernobyl c’è stata Fukushima. È successo questo: «L’atomica in tempo di guerra ha dato il braccio all’atomica in tempo di pace: entrambe uccidono. Mancavano persino le parole per raccontare della gente che aveva paura dell’acqua, della terra, dei fiori».

Mancavano persino le parole, eppure sì, penso si debba comunque provare, fino alla fine, come possiamo. Il mio mezzo è la scrittura, la uso, non è una fiducia cieca, è sempre minata dallo sconforto ma vedi che nonostante tutto, lo dice Fortini, lo dice Brecht, scrivo.


b – In Historiae leggiamo «Non esistono nomi, autrici, autori, / volano soltanto le parole». Mi viene in mente la riflessione di Pirandello su una vita che non si può vivere, se si sceglie di scriverla. Esiste il pericolo, per un poeta, di sentire di esistere solamente nei propri versi e nell’atto creativo dello scrivere?

a – Sì, esiste questo rischio, ma forse non è il mio caso perché mi sento un poeta della realtà, una persona che tra le altre cose (non che ne sappia fare molte…!) scrive. Non penso di esistere solo nei miei versi, semmai mi viene il dubbio di non esistere affatto.

Per quanto riguarda la poesia Non esistono… l’ispirazione è lucreziana, volevo dire che le parole volano non perché sono alte, volano basse come atomi, si compongono e scompongono nell’aria, e i nomi, la fama, la ricerca della gloria legata ai nomi è illusoria.  Rispetto a Pirandello (avrà detto davvero questa frase?) non so, non vedo differenza tra vivere e scrivere, scrivere in fondo non è che un modo di vivere.


b – Ne Il catalogo della gioia, alla conclusione di Rauschenberg (come un quadro di) il mattino stesso appare nei suoi versi come «l’opera d’arte». È possibile per il poeta vivere gli stessi momenti della realtà nella trasfigurazione della poesia o si tratta di qualcosa che avviene in seguito, al momento della composizione? 

a – In seguito, almeno per me, sì, al momento della composizione, non nello stesso momento. Non so se si possa parlare di trasfigurazione nella poesia quanto di una trans-mutazione, di una trascrizione che accende qualche elemento ulteriore.


b – Parlando di che cosa sia il linguaggio, Valerio Magrelli, intervistato da Giorgio Tranchida, citava una frase di William Burroughs (ripresa poi da Laurie Anderson per una canzone): “language is a virus from outer space”. Si tratta di un tema, quello del linguaggio, che trova un riscontro concreto nella sua opera, dove oltre alla grandissima varietà di forme metriche e stilistiche adottate, il lettore si imbatte negli scarti e nelle fratture della dicotomia lugodorese-italiano. La mia domanda riguarda dunque il suo rapporto con il linguaggio in quanto tale, e nello specifico con la sua declinazione poetica: che cosa costituisce il linguaggio per il poeta, nella sua esperienza?

a – Sono stata (forse lo sono ancora) una bambina balbuziente e il linguaggio è sempre una conquista (dello spazio da cui viene quel virus…) soprattutto quello a voce alta. Paradossalmente la lettura metrica greca e latina rendeva la lettura più fluida. Con il linguaggio scritto ho un rapporto di continua composizione/scomposizione, dislocamento. Amo scoprire come una parola si scardina e si illumina con le altre, per diffrazione. Amo i dizionari etimologici. Per me il linguaggio è sempre una relazione con l’esperienza e non potrebbe esistere senza una ricerca di struttura.


b – Tornando a citare alcune parole di Residenze invernali, questa volta in riferimento alla prima composizione della raccolta, “la velocità del crollo” accomuna tanto in nostro comporre a quello di figure angeliche e animalesche. Il riferimento a domini tanto opposti, quello dell’etologia e quello della sacralità immateriale degli angeli, sembra collocare la nostra esperienza in una caducità che appartiene a entrambi i regni, terrestre o celeste che sia. Esiste, secondo lei, la possibilità attraverso la poesia (e l’arte in generale) di superare questo senso di caducità imperante?

a – Non so, caducità per me è una parola positiva. L’arte non è un antidoto alla caducità, ma la sua consapevolezza più profonda. La poesia è caducità, ogni idea perenne mi fa rabbrividire. La nostra caducità è quanto di più prezioso esiste. La rimozione della parola morte, tipica del capitalismo, l’inseguimento di una perfetta forma fisica, l’orrore per ciò che invecchia sono le tare dell’Occidente. La nostra esperienza è caduca, precaria – non potrebbe essere altrimenti – anche se naturalmente questo ci spezza il cuore. La poesia non supera la caducità, la percorre anche quando ha, come in Dante, la certezza di una fede. Penso agli abbracci mancati, ai suoi incontri con le ombre. C’è un libro molto bello a questo proposito: Amor che move di Manuele Gragnolati.

In Residenze invernali la piuma, l’immagine dell’angelo era funzionale a un’idea di bianco e pensavo non tanto agli angeli della cristianità, quanto alle raffigurazioni classiche.


b – La quotidianità, le piccole cose, i piccoli gesti, appaiono nella sua poetica come degli elementi di primissimo ordine; il cosmo costituito dai loro dettagli è spesso, nelle sue poesie, la via di accesso all’universo della sensazione particolare, del vissuto interiore. In riferimento a questo tratto così peculiare, esistono dei poeti a cui lei si sente stilisticamente vicina o nei confronti dei quali percepisce un’affinità compositiva particolare?

a – Il quotidiano, i gesti quotidiani contribuiscono alla mia sanità mentale, lotto contro l’entropia. Non divinizzo la follia creatrice e il binomio poesia-follia. Il cliché poi della poetessa folle mi irrita. Il disturbo mentale è un dolore molto serio che va rispettato e non spettacolarizzato.

Dal quotidiano si può spalancare l’ampiezza, uno spazio diverso. Penso a Emily Dickinson (520) meravigliosamente tradotta da Amelia Rosselli: da un dettaglio (scarpa, scialle, sotterraneo) si spalanca la Marea, l’infinito, o meglio quello che noi concepiamo come infinito.

Nomi? Da Saffo a Emily Dickinson, da Elizabeth Bishop a Anne Carson.


b – Sono passati tanti anni dalla pubblicazione dei suoi primi versi. Crede si possa parlare di un “percorso” riferendosi alla sua vita come poetessa? In altre parole, ha conosciuto una processualità nel suo rapporto con la composizione o si tratta di una relazione che vive sempre allo stesso modo?

a – Non lo so, non so se si possa parlare di un percorso ma ogni libro per me è l’ultimo, una specie di congedo e il metodo di composizione forse non è cambiato: accumulo, sedimentazione, poi devo trovare il coraggio di guardare, a quel punto elimino e quello che resta lo compongo spesso attraverso lo spostamento o se si vuole usare un’immagine casalinga: taglio, ricucitura, o chirurgica: taglio, sutura. La creatività nasce (sto citando John Cleese) da quanto riesci sopportare your shit, da quanto riusciamo a giocare con le idee.


b – Esiste una differenza tra quello che significava essere una poetessa negli anni del suo esordio e l’esserlo oggi? Che cosa è cambiato, se qualcosa è cambiato, nella considerazione sociale del poeta tra il 1992 e il nostro 2019?

a – Considerazione sociale, zero ora e allora, ma è da Baudelaire che la situazione è questa. Va bene così, la carriera la lasciamo ad altri. Un cambiamento riguarda le donne. Ci sono molte brave poete, poetesse con uno sguardo critico che tiene conto delle conquiste del femminismo ma che va oltre ed è capace di ironia, e cosa ancora più importante, di auto-ironia. Ci sono poi delle critiche vere, con uno sguardo libero, coraggioso come Cecilia Bello Minciacchi.


b – Ha mai avvertito, in tutti questi anni, la necessità di distaccarsi dal fare poesia e dal rapporto con la composizione?

a – Sempre, tutti i giorni, non potrei scrivere se non mi staccassi dal fare poesia.


b – A proposito del panorama della poesia contemporanea italiana, quali sono i nomi dei poeti che ama di più?

a – …sempre di più Zanzotto, che come ha detto Stefano dal Bianco, non finisce mai …e come succede a certe piante non smette di “buttare”.

Stefano Bottero intervista Antonella Anedda

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