Su Zebù bambino di Davide Cortese

Disegna angeli bianchi
il diavolo bambino
poi li accartoccia tutti
gli dà fuoco con l’accendino.
“Solo angeli neri”, dice
guardando bruciare la luce. 

*

Nei suoi lascivi giochi
si accompagna a dannati rei
che sebbene lo conoscano
chiedono “chi sei sei sei?”

Zebù bambino è l’ultima raccolta di Davide Cortese, poeta liparese, classe 1974. Composta da 21 poesie brevi e da uno scritto di Mattia Tarantino, è pubblicata al termine del 2021 da Terra d’ulivi Edizioni, nella collana di poesia diretta da Giovanni Ibello. Ed è una raccolta unica, Zebù bambino. Le sue coordinate formali si dispongono con facilità disarmante agli occhi del lettore, si orizzontano verso le ricorrenze della filastrocca creando strutture geometriche minime, levigate. Suoni semplici, figure semplici, distorti da un presupposto di significato tanto immediato quanto diabolico: le poesie di Cortese narrano di un Satana infante. Di un Anticristo bambino, evocato dall’inversione quasi speculare del suo nome – Zebù, non Gesù, che pure compare citato al concludersi della raccolta. Attraverso l’apparente neutralità di una messa a fuoco di Polańskiana memoria, il poeta definisce le cornici infantilistiche delle sue composizioni creando un perfetto senso di equilibrio tra la tenerezza evocata e il soggetto evocante. Un soggetto spaventoso, crudele – per il peggiore dei motivi: l’assenza di motivo. Un’operazione assurda, quella di Cortese, retta su quello che a ragione Tarantino definisce factum loquendi, “mero fatto che si parli”. L’immediatezza lirica e linguistica s’intreccia con il presupposto di una datità assoluta di Zebù stesso, presentato come “molecola negativa” – per dirla con Bukowski – nel progressivo decadere che è la crescita. Nel suo sguardo, nelle sue azioni, Cortese racconta l’annichilimento dello scibile: porta a provare tenerezza per la catastrofe. Affezione per il crollo. La comprensibilità totale e immediata delle filastrocche di Zebù bambino è così non solo generata da una precisa ragione suggestiva, ma implica in sé il senso dell’irrisolvibile. È letteralmente chiara, la poesia di Cortese, aperta allo sguardo, ma priva di una ragione definitiva. Anche chi “conosce” Zebù, infatti, gli domanda chi sia – evocando il numero della bestia. Così, il lettore è abbandonato al disorientamento, senza preavviso. Così, l’operazione di Cortese ha successo, di pari passo allo spalancarsi della voragine stesa dalla delicatezza di piccole suggestioni.

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