Su Una fine di Alfonso Guida

UNA FINE

Finché avrò parola finché la mente
sarà salda e potrà muoversi libera
finché sarò stanco e potrò indugiare
senza attesa nel vento nel mio corpo
che non lascia mai il suo posto finché
pensare sarà come uscire a notte
dalla tana per tessere prodigi
divertire gli abitanti del bosco
con le piroette e i fuochi di sagra
della voce finché un compagno avrà
fiducia in me che scrosto dalle origini
prima e dopo finché questa lingua ama
finché scaldo il frutto che a mani giunte
ricevo finché rendo grazie, muto.

La costruzione di Una fine di Alfonso Guida [pubblicata da Marco Ercolani nella sezione delle sue Scritture] si regge su un impeto ossimoricamente violento e sommesso.  Con un modus già caro a Char, il poeta lucano assume i panni del traghettatore: l’io dichiara, fin dal primo verso, il senso etico della sua presenza come legata a una certa scansione temporale. Finché. È oltre quel limite che l’ordine fenomenico interagisce con il corpo, non prima. L’indugio, la stanchezza, pongono le basi del finire ma non della fine, di una fine. Una piccola morte, un segmento, un fotogramma. In questo è a Rilke che guarda, probabilmente – senza lasciare che la tensione narrativa, lirica, prevalici il sentire statico, di un concetto che non si muove: l’aggressione che giunge dall’esterno. È lo Char di Évadné, della violenza delle piante, delle strade imboccate per consumazione. Così il corpo di Guida non lascia mai il suo poso, è fedele a un dovere che si consuma tra le parentesi di un tempo prestabilito – quello della festa. “Pensare sarà come uscire a notte / dalla tana per tessere prodigi / divertire gli abitanti del bosco”. L’atto conoscitivo in sé, l’atto religioso del guardare ad occhi chiusi, prende servizio, del ricevere e cingere il frutto da scaldare. La gabbia imprecisa del suo sonetto si chiude con quella che è forse l’immagine più suggestiva, più staticamente violenta, della composizione tutta: “rendo grazie, muto”. La sua è parola dei santi, parola che non ha sillabe, che non ha peso, che non ha ritmo. Guida, poeta, la scrive con la precisione di una mano libera, non congiunta in preghiera. Dalle origini bisogna scrostare, non integrarsi, non arrugginire. Risuona in tutto questo la lezione della santa sorrentiniana – “[Mangio solo radici] perché le radici sono imporanti”. Ma nella poesia di Guida il bosco, il luogo delle radici, ha abitanti, s’illumina di sagra. Fissa un prima e un dopo come solo il tempo della festa più fare – il tempo degli andirivieni che si uniscono, delle tracce dei canditi tra le dita. Come possa il poeta non svanire in tutto questo, è lui stesso a suggerirlo. Nel rumore muto della danza, nell’uscire a sera dalla tana, la voce di un compagno.

Su Una fine di Alfonso Guida

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