Per Biancamaria Frabotta, poeta

Nella giornata di ieri, 2 maggio 2022, la poeta Biancamaria Frabotta si è spenta in ospedale nella sua amata città di Roma. Qui è nata nel 1946, dal 1969 ha iniziato a insegnare l’Università La Sapienza e ha costruito una lunga carriera di studiosa e docente.
Il valore della sua attività intellettuale è stato riconosciuto dalla comunità letteraria fin dai primi anni Settanta. Nel 1976 ha curato lo storico volume Donne in poesia. Antologia di poesia femminile in Italia dal dopoguerra ad oggi, apparso per Savelli con una nota di Dacia Maraini. Femminista, letterata, persona affettuosa e sempre attenta alle voci degli altri, Biancamaria Frabotta lascia dietro di sé generazioni di studenti toccati dalla sua testimonianza.
Il suo ricordo unisce oggi coloro che l’hanno seguita come maestra e coloro che hanno amata come poeta. Esordì nel 1971 su «Nuovi Argomenti», riscuotendo fin da subito un vasto successo di critica e di pubblico. Tra le sue numerose opere in versi ricordiamo Il rumore bianco (1982), Appunti di volo e altre poesie (1985), La viandanza (1995), Da mani mortali (2012), La materia prima (2018). A queste, nell’arco dei numerosi anni di attività poetica, si aggiungono plaquettes, edizioni d’arte, traduzioni, curatele e apparizioni in volumi antologici.
L’imprinting modernista dei suoi versi, capace di far coesistere con enorme grazia le dimensioni del privato e del sociale, dell’umano e dell’animale, del politico e dell’emotivo, ha dotato fin da subito la sua voce di una tonalità unica nel panorama poetico contemporaneo. La salutiamo, oggi, come Redazione, unendoci all’affetto degli studenti, dei colleghi e degli allievi, ricordando alcune tra le sue poesie più significative.

 

da Il rumore bianco

È vero. Non come te poeta io sono
io sono poetessa e intera non appartengo a nessuno.
Da me, come da te la pura stella dell’inizio del mondo
è lontana la menzogna primaria, maschia e nerovestita.
Con mia madre io ho altri problemi
anche se oggi ti rendo l’onore delle armi
il fuoco sacro dell’imitazione.
Vicino alla morte e a morire è la
corolla spampanata di questa coppa di veleni
la verità si fa più semplice e facile da ricordare.
Chi di noi dunque per primo ha perso la memoria?

*

L’ULTIMA CORSA da La viandanza

Una volta è già capitato
e non fu né la prima né l’ultima
ma fu una delle tante nostre
luminose lunazioni
sopra il fiume che s’insabbiava
in mezzo alle sterpaglie, le fumanti immondizie
che la Magliana spreca
per chi ha dentro un bastante
lembo di azzurro e le stoppie
bruciate sulla franosa pianura
che giace sotto al livello del Tevere.
Poi tornammo al centro per bere
ancora un sorso del giorno
che smoriva con l’ultima corsa
prima del tramonto
rosso di piacere e di angustia
in forse davanti al finestrino già estivo
se fosse colpa dei nostri vent’anni.
Così ci avventammo contro il nostro destino.

*

da La pianta del pane

Mio marito ha un cuore generoso
come quel dio che dona il primo verso.
La notte a sé non tira le coperte
sul petto non mi pungono i suoi peli
e al risveglio vorrebbe unirsi al coro
anonimo che sole e fame assillano.
Mio marito diffida delle ore scure
e al suo cospetto io mi vergogno.
E anche di vergognarmi mi vergogno.
Mio marito diffida delle cose oscure.
Così, per amor suo, io cambierò stile
e per lui terrò in serbo cose chiare.

*

da Da mani mortali

Vattene, Presidente, dai cieli
dai soli, dalle nevi, dagli uccelli
in fuga dalle tue bombe intelligenti
via dalle notti torride o gelide
dai giorni afosi o tersi, vattene
dalle nostre fatiche quotidiane
di umili avventurieri della pace
via dalle nostre vite scomode
dalle irte spine delle nostre povere
cose, via dalle riserve, dalle risorse
dalle soglie delle nostre case
dai nostri umani vizi, vezzi
storie d’amore che corrompi
dalle lontananze che avvolgi
in sudari, dal nostro girovagare
o stare, dalle ore più alacri
dai nostri sonni inermi
via, presidente, vattene
dal paese dilaniato dell’anima
mia, vattene dalla mia testa
fuori dalla mia poesia
che detesta ogni altra menzogna
che non sia la sua. Solo di tramonti
io voglio cantare, rose di maggio
e ciliegie di giugno, solo le lodi
tessere di chi chiude gli occhi
la sera, innocente, e l’indomani
li riapre implorando – Signore
che togli i peccati del mondo
togli dal mondo i grandi peccatori.

*

da La materia prima

Quel giorno Orfeo si ribellò al suo mito
e rispettò il comando di Hermes.
In una parola non si voltò. Se per
generoso empito o fiduciosa grazia, non so.
Euridice impreparata a tanto soccorso
si ritrovò fra erbe e piante mai viste
accanto al luogo dove guizzò la vipera.
Tremò, come chi già sopravvisse una volta
e all’altrui volontà china lo sguardo.
Fra sé, emulò Anna, futura madrina
di rinnovata sofferenza e sospirò.
Bisogna di nuovo imparare a vivere.

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