Sulla poetica di Francesco Brancati ne “L’assedio della gioia”

TRACCE DI E.

Sono a ogni angolo,
distraggono la polvere.

Giocattoli in baule,
paese di montagna,

progeggono le nuvole,
inventano le mani.

Invadono la carta,
sospingono le sillabe

fino al confine del bosco

(i colpi della notte
traguardano nel nero).

Il buio riconosce la sua materia
nella consistenza della luce gli oggetti
e le persone si depositano, sembrano
conservare profili delle loro sofferenze.

Provare con la poesia, quando le mani
sono ancora soltanto le mie mani,
ad afferrare la sostanza del dolore,
le dita ustionate appena prima del fumo,
l’odore di bruciato, stremati dalla corsa
per tramortire il ricordo incagliato
dietro l’argine estremo del fiume,
il luogo incantato dell’incubo, dove
una notte (ma erano i fanali l’uomo
che abbiamo visto correre incontro
al nostro spavento) è stata il principio
della gioia, incurante l’assedio.



Nella prefazione a L’assedio della gioia (2022), Massimo Gezzi sottolinea il suo « [non essere] un libro che si arrende al caos, ma vuole invece provare a fronteggiare il buco nero del presente». La complessità stessa del reale occupa il ruolo di oggetto-protagonista nella poetica di Brancati. Ad essa si riferisce l’autore con metodicità costante – espressione, forse, della sua vocazione di studioso e letterato. La realtà non si mostra all’Io per frammenti ma per unità minime, segmenti ordinati secondo i criteri di un’osservazione lirica e – dolorosamente – asettica. Le “tracce” dell’altro da sé ereditano un significato che risuona nella singolarità emotiva, disponendosi tuttavia come i punti fermi di una costellazione logica. Un primo livello di lettura suggerirebbe un intento autoriale rivolto all’equilibrio tra componenti di sentimento e ratio. Il poeta si muove tuttavia in un frangente creativo in cui l’interferenza di un altro dato ha problematizzato l’eventualità di quell’equilibrio – in definitiva, impossibile: il dato dell’irrazionale.

C’è, nella poesia di Brancati, una specifica qualità di irrazionale.
L’ispirazione rosselliana (che orienta certamente alcune delle forme di L’assedio della gioia) si offre in questo senso come un riferimento importante. L’opera di Rosselli (che ha il valore di educazione sentimentale, apprendistato poetico, per molti poeti della nuova generazione) trasmette forse alla raccolta di Brancati il senso – onnipervasivo – della corruzione degli strumenti interpretativi. L’io si rivolge a un fenomeno, a dei fenomeni, che resistono all’intento antropologico della comprensione. La realtà accade, come sempre, anche quando i criteri di decifrazione sono andati perduti. Il ritrarsi degli oggetti è così un paradigma fenomenologico agli occhi di Brancati – una dinamica che attraversa e riguarda ogni cosa, dalla materia biografica a quella estrinseca del luogo comune. Il “buio” riconosce i propri luoghi, l’incanto è “dietro” l’argine, posteriore al “principio” che ancora – o forse ormai – non si raggiunge.

Assedio, quindi, ma assedio rovesciato, in cui le mura si moltiplicano alla vista fino a rendersi invasore esse stesse. Moltitudine imprecisa, eppure stretta nel tentativo di sensazione, di catalogazione. «Per esempio adesso, un fiato di lame / saprebbe raggiungerci e quindi colpire / proprio sulla nuca, ma con leggerezza».

Quella di Brancati è via all’accettazione del reale – più precisamente, di un reale soggettivamente percepito, totalmente localizzato negli argini del sé. Il paesaggio ospedaliero (ancora, Rosselli) è così materia compositivo-narrativa spogliata dalla dinamica testimoniale perché ormai priva della certezza di un referente. Anche nei punti in cui i versi si fanno più aderenti alla realtà dell’accadimento osservato, il dispositivo dell’irrazionale interviene a riorientarne i contorni formali. «i suoni che suo padre vocalizza / per estenderne la gioia / trascurando consonanti / sono ancora degli uomini, / innumerevoli anni». Accettazione, dunque, perché confessione di rapporto. La “gioia”, termine che ricorre ben venti volte nell’arco della raccolta, è il vettore di una relazione: circoscrive e configura i termini della modalità in cui l’accadere raggiunge l’Io. Poi, come in esso si sedimenta («le persone si depositano, sembrano / conservare profili delle loro sofferenze»). Questa dinamica di rapporto totalizza l’esperienza scritturale di Brancati – suddivisa in sei sezioni geometricamente ordinate. È questo forse, tra i molti che si potrebbero citare, il pregio principale del libro: la coerenza tra una versificazione piana, mai oscura, e l’intuizione relativa all’impatto cognitivamente e filosoficamente problematico tra l’io e l’esterno. Disorientamento come vettore del muoversi, mai della perdita di sé.

Gli echi di derivazione appaiono così come riferimenti non ingombranti o invasivi, per quanto saldamente fondati. Eliot (come sottolineato da Gezzi) e Dickinson hanno un ruolo importante in questo senso, ma a percepirsi sono anche le traiettorie di un Novecento delle origini – Amalia Guglielminetti, Emanuele Carnevali. Traiettorie a cui Brancati non rivolge lo sguardo come ripresa epigonale, né con intento programmatico di rielaborazione formale. Al contrario, eredita da loro una qualità del sentire-il-reale, la ferita generata dallo scontro. Oltre i limite di esso, ad attendere l’io c’è il senso amaro di una tristezza pervasiva – di una gioia interminabile che, fino alla fine, sfianca. «Se già piangi nuvole / perché non mi svegli?» scrive l’autore al termine di Dove il corpo sogna (in probabile eco ai versi di Nova di Alberto Ferrari). Se l’irreale irrompe a contaminare quanto abbiamo creduto avere un significato, perché non tornare indietro? La risposta, forse, è che non c’è ritorno possibile dopo il punto in cui la lista delle unità di misura conosciute, familiari, è andata perduta.
Forse, un domani, la possibilità di poter «finalmente diventare // una piccola paura / nella nebulosa di terrore del mondo ». Forse, ma non adesso.

Sulla poetica di Francesco Brancati ne “L’assedio della gioia”

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